Ci sono due modi per ammazzare il calcio giovanile. O meglio, ci sono due cause fondamentali: genitori e allenatori (espressione della società).
Partiamo da questi ultimi: è vero che esistono tecnici preparati, figli di un percorso di studi adeguato, o di un’esperienza sul campo.E poi c’è chi lo fa per passione. Ma c’è un leitmotiv che mi capita di vedere sempre di più nei campi di provincia: persone che, pensando di allenare campioncini, non hanno altro da fare che criticare il lavoro altrui. Ragionassero di più su dati di fatto e meno su almanacchi e manuali il calcio sarebbe migliore.
Ci sono poi genitori che si autoconvincono di avere in casa futuri giocatori di Serie A. Li sottopongono a stress psicologici devastanti che rovinano fin da piccoli i ragazzini, rendendoli nevrotici con il pallone tra i piedi e non più giovani calciatori.
E queste cose, ahimè, le vedo negli occhi dei bimbi stessi, già bombardati dalle immagini edulcorate in HD di videogames e televisione e quindi portati a voler riproporre sul campo le giocate di Ibrahimovic o lo scotch sul calzettone tirato su al ginocchio come Cristiano Ronaldo. Ma questo è un fatto di costume e delle generazioni che cambiano, chi gravita intorno ai settori giovanili deve convivere con le nuove realtà.
“Il calcio è sorridere, è allegria”. Lo diceva Ronaldinho.Ecco perchè in Italia, nonostante i paroloni dei guru della scienza motoria, il calcio giovanile sta andando a puttane. Più sorrisi, meno pressioni. La soluzione è facile, la mentalità (la nostra, sia chiaro) sbagliata.
fv