Le colline del prosecco stavano finendo di lavorare: erano le sette e poteva bastare, era buio e ne avevano i maroni pieni. “Nessuno ci deve più guardare e torturare” pensavano, ” Chi ce lo fa fare di stare ancora in camicia, a mostrarci ordinate. Pigiamino e via, magari un bicchierino di Valdo e un sigaro”. La luce nel camerone della villa era ancora accesa. Una specie di veranda con un tavolone enorme al centro. Il bello è che con quel buio pesto, da guardare, non c’era proprio un bel niente. Alfredo se ne stava semplicemente lì, con la testa appoggiata al vetro, aspettando. Era una vita che aspettava segnali, che puntualmente arrivavano e lui, quella testa di cazzo, faticava a interpretarli, come il telefonino che su quelle colline non pigliava una tacca neanche morto.
“Cazzo, vorrei tanto essere come quei Nokia del 2000” pensò.
Con quelli ci potevi costruire una casa, indistruttibili e infallibili.
“Si chiamano cellulari perché agganciano le celle, no?” continuava nell’interminabile pippone mentale, “E quei telefonini lo facevano, mica come quelli di adesso. Ah no, adesso si chiamano smartphone. Che poi, sono più smart o più phone?”
Ma in quel momento, di quanto fichi fossero i Nokia dei primi duemila non gliene sbatteva ‘na mazza. Dall’altra parte della stanza, appoggiata al muro portante, c’era lei. Lei non aveva un nome. Lei era tutto ciò che una donna poteva essere. Poteva chiamarsi Camilla, Francesca, Mafalda o Genoveffa, sarebbe stata perfetta comunque. Avete presente quando ci dicono “Mah….. non avrei mai detto che quello lì si chiamasse Carlo, ha la faccia da Fabio”. Una cazzata immensa, ma non del tutto infondata. Siamo una somma di situazioni ed esperienze. E se, per imprinting, leghiamo una faccia a un nome, potete star certi che non ce la togliamo più. A me succede con le auto. Ho una malatissima teoria. Secondo questa cazzutissima idea le persone assomigliano alla propria auto: il taglio degli occhi e la forma dei fari, i mascheroni del radiatore e le bocche. Non chiedetemi dei fendinebbia perché non lo so. Bah, potrebbero essere le maniglie dell’amore.
Mi sto ancora perdendo, cazzo.
C’era lei, appoggiata a quel muro portante, con quel nome che poteva essere di chiunque. I capelli biondi, non d’oro e nemmeno di tutti quei colori che s’inventavano gli amici poeti. Gli occhi, però, non erano da Mafalda o Genoveffa. Erano roba da apparizione della madonna. Come quei laghetti delle Dolomiti, azzurrini. Come il blu reale che tanto piaceva a Ludwig di Baviera, quello del castello di Neuschwanstein. Quell’azzurro, che poi era turchese, che poi era anche ottanio, come l’orologio che aveva al polso. C’erano tutti i blu del mondo, per farla corta.
Lei si avvicinò, incuriosita da questo perfetto imbecille che annebbiava la finestra col fiato.
“ Che fai?” disse.
Lui, quasi stravolto dal suo avvicinamento, si spaventò.
“ Niente…stavo contemplando l’Iperuranio”.
Lei lo guardò stranita e restò zitta cinque secondi. Silenzio imbarazzante e assurdo. Una figata, però, perché Alfredo la poteva guardare negli occhi.
“ L’Iper…. che?”
Le cose erano due. O lui aveva fatto la figura del saputello di merda, o lei non conosceva Platone.
“ No, non è un supermercato”, rispose cercando la battutina. “E’ il mondo delle idee di Platone”.
“Scusami, non ho fatto il Liceo, ma Ragioneria!”
Finì tutto con una risata.
Quella volta l’Iperuranio aveva fatto un gran bel lavoro. Non c’erano cavalli bianchi e neri, aurighe e idee. C’erano solo segnali, segnali che qualcosa poteva nascere. Perché ad Alfredo piaceva Platone, ma adorava pure i supermercati. E forse, adorava anche lei, la ragioniera incuriosita dagli occhi blu.